IL SOLE 24 ORE
domenica 24 aprile 2016
Speranza d’Amore
di Renato Palazzi
Pare che gli spettacoli di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, il duo messinese caro al pubblico francese e amatissimo dagli addetti ai lavori italiani – che con tutto il male che se ne dice riescono ancora a riconoscere l’ingegno, quando c’è – arrivino con fatica sui nostri palcoscenici, dove si preferisce puntare su nomi ritenuti di maggior richiamo. Credo sia un pessimo segnale, perche il Ioro raffinatissimo teatro post-beckettiano, post-siciliano, post-esistenziale riesce a fondere con rara delicatezza la comicità e la grazia poetica, la cattiveria e la tenerezza, unite a un acre sguardo sul presente.
Prendiamo Amore, Ia creazione più recente di Scimone, che la firma come autore, e di Sframeli, che ne cura la regia, anche se i ruoli, dopo oltre vent’armi di percorso comune, tendono ormai a intrecciarsi: lo spettacolo, che aveva debuttato lo scorso novembre a Messina, ed ha ora aperto all’Arena del Sole di Bologna la mini-rassegna dedicata giustamente alla compagnia da Emilia Romagna Teatro – quattro titoli, un film, un incontro, un laboratorio – è un autentico gioiello. Non dura molto, una cinquantina di minuti al massimo, ma appare come il punto d’arrivo di un processo di decantazione, di un prosciugamento metaforico che tende a ridurre i temi trattati a una sorta di sottile quintessenza.
L’azione è eloquentemente ambientata in un simbolico cimitero, il luogo dove le esistenze dei quattro personaggi convergono verso il proprio fatale tramonto, che certo è la morte più o meno imminente, ma prima ancora è I’ora di un inevitabile bilancio finale.
Si tratta di due mature coppie, formate l’una da”un vecchietto” e “una vecchietta”, l’altra da un pompiere e dal suo comandante. I quattro si ritrovano intorno a due tombe emblematicamente pronte a trasformarsi in letti matrimoniali, dotati sulla lapide-testiera di piccole luci a forma di croce, e coperte da lenzuola che verranno estratte da cassetti posti sotto le lastre di marmo.
Il titolo si riferisce all’espressione – pronunciata con la o aperta alla siciliana, e con una fissità un pò meccanica – con cui la donna si rivolge di continuo al marito, quasi nella deformazione parodistica di un quotidiano gergo coniugale: ma l’amore in sé è comunque al centro di tutto, l’amore che in passato non è stato vissuto fino in fondo, l’amore che si può forse recuperare anche quando pare troppo tardi, l’amore che, se il declino fisico induce a rinunciarvi, diventa un funesto presagio della fine. Ciò riguarda l’anziana coppia, ma anche i due pompieri, che hanno sempre provato un’attrazione reciproca, ma si sono dovuti accontentare di fugaci contatti clandestini.
La scrittura di Scimone, stralunata, ripetitiva, sembra fatta curiosamente di pochi elementi, sempre gli stessi, che ricorrono ossessivamente, ma che bastano a evocare un’infinita gamma di sfumature. La vecchietta che attende solo di cambiare il pannolone al vecchietto, che come massima forma di intimità sogna di lavare Ie due dentiere insieme, i pompieri che in gioventù, per paura d’essere scoperti, si appartavano “dietro l’autobotte”, fanno sorridere, ma di un sorriso amaro, feroce. E quei loro sforzi di ritrovare in età avanzata sensazioni represse o da tempo perdute ha un che di atroce,ma suggerisce anche un vago spiraglio di speranza.
Per quanto riguarda la messinscena, come al solito tutte le sue componenti convergono a sviluppare un unico tono sospeso, visionario e surreale: la regia di Sframeli, con quei pompieri che percorrono la ribalta su un carrello di supermercato, fornito di sirena e lampeggiante sembra lieve e giocosa, ma sa graffiare in profondità.
La scenografia di Lino Fiorito, sempre acuto e pungente, le aggiunge un beffardo risvolto metafisico. Ed è irresistibile I’interpretazione – tutta sul filo dell’assurdo – degli stessi Scimone e Sframeli, l’uno nei panni del vecchietto, l’altro in quelli dei capo pompiere, affiancati efficacemente da Giulia Weber e Gianluca Cesale.